Oggi, 10 febbraio, si celebra il “Giorno del ricordo” delle foibe e dell’esodo degli italiani dall’Istria, Fiume e Dalmazia dopo il 1945.
Alla fine della seconda guerra mondiale, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume, Zara e altri centri minori del confine orientale furono il teatro di un dramma, mentre nel resto d’Italia si festeggiava l’avvenuta liberazione e la pace portata dagli Alleati.
Nel settembre 1943, con lo sbando dell’esercito mussoliniano e l’Armistizio tra Italia e Alleati, in Istria i partigiani del maresciallo Tito occupano città e paesi e avviano una feroce campagna di rappresaglie indiscriminate verso gli italiani, equiparati ai fascisti. Intere città si svuotarono: molti se ne andarono legalmente (con le “opzioni”), altri con gli espatri clandestini. Chi veniva ripreso finiva nei terribili lager titini.
Vennero uccise diverse migliaia di persone, molte delle quali gettate vive nelle foibe. Questi baratri venivano usati per l’occultamento di cadaveri con tre scopi: vendicarsi di nemici personali, magari per ottenere un immediato beneficio patrimoniale; dominare e terrorizzare la popolazione italiana delle zone contese; eliminare gli oppositori politici e i cittadini italiani che si opponevano alle politiche del maresciallo Tito.
Le foibe sono cavità carsiche, voragini rocciose, profonde fino a 200 metri, che i partigiani titini utilizzarono come mattatoi per eliminare migliaia di italiani e oppositori al nuovo regime. I “pozzi della morte” in tutta l’Istria e Venezia Giulia furono diverse centinaia.
Gli sventurati (si parla di 10-12.000 vittime) venivano condotti in fila, con i polsi legati da fil di ferro, a due a due, sull’orlo della voragine. Qui gli aguzzini sparavano al primo, che si trascinava dietro i compagni.