Attualità, Libri, Riflessioni

In nome della verità assoluta

Je suis Charlie[Giordano] Bruno e [Michel de] Montaigne vivono entrambi la drammatica esperienza delle guerre di religione. Sanno che la convinzione di possedere la verità assoluta ha trasformato le diverse Chiese in strumenti di violenza e di terrore. Sono coscienti che il fanatismo ha favorito lo sterminio di esseri umani innocenti e inermi, arrivando perfino a introdurre distruzione e morte all’interno delle stesse famiglie.

[…] il rischio del fanatismo si annida in tutte le religioni. In ogni epoca, purtroppo, in nome di Dio sono stati commessi massacri, eccidi, genocidi. In nome di Dio sono state distrutte opere d’arte di importanza universale, sono state bruciate intere biblioteche con manoscritti e libri di inestimabile valore, sono stati messi al rogo filosofi e scienziati che hanno contribuito in maniera decisiva al progresso della conoscenza. Basti ricordare il sacrificio di Giordano Bruno, per opera dell’Inquisizione romana, consumato nelle fiamme di Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600. Oppure l’orrendo supplizio di Michele Serveto a Ginevra nel 1553, ordinato da Giovanni Calvino, su cui continuano a pesare le accuse coraggiosamente pronunciate da Sebastian Castellion:

Non si dimostra la propria fede bruciando un uomo – scrive Castellion nel suo Contro il libello di Calvino – ma facendosi bruciare per essa. […] Uccidendo un uomo non si difende una dottrina, ma si uccide un uomo. Quando i ginevrini uccisero Serveto non difesero una dottrina: uccisero un uomo.

Terribile paradosso: in nome della verità assoluta, sono state inflitte violenze spacciate come necessarie per il bene dell’umanità. […] Anche nel dominio delle cose divine, infatti, il possesso della verità assoluta finisce per distruggere ogni religione e ogni verità. […] gli uomini non possono risolvere, con strumenti terreni, una questione che solo Dio potrebbe risolvere.

[…] nessuna religione e nessuna filosofia potranno mai rivendicare il possesso di una verità assoluta, valida per tutti gli esseri umani. Perché credere di possedere l’unica e sola verità significa sentirsi in dovere di imporla, anche con la forza, per il bene dell’umanità. Il dogmatismo produce intolleranza […]

Solo la consapevolezza di essere destinati a vivere nell’incertezza, solo l’umiltà di considerarsi esseri fallibili, solo la coscienza di essere esposti al rischio dell’errore possono permetterci di concepire un autentico incontro con gli altri, con quelli che pensano in maniera diversa da noi. Per queste ragioni, la pluralità delle opinioni, delle lingue, delle religioni, delle culture, dei popoli, deve essere considerata come una immensa ricchezza dell’umanità e non come un pericoloso ostacolo.

[…] vorrei però chiudere provvisoriamente con una bellissima citazione di Lessing in cui, ancora una volta, l’accento viene posto sulla necessità di cercare la verità:

Il valore dell’uomo non sta nella verità che qualcuno possiede o presume di possedere, ma nella sincera fatica compiuta per raggiungerla. Perché le forze che sole aumentano la perfettibilità umana non sono accresciute dal possesso, ma dalla ricerca della verità. Il possesso rende quieti, indolenti, superbi. Se Dio tenesse chiusa nella mano destra tutta la verità e nella sinistra il solo desiderio sempre vivo della verità e mi dicesse: scegli! Sia pure a rischio di sbagliare per sempre e in eterno mi chinerei con umiltà sulla sua mano sinistra e direi: Padre, dammela! La verità assoluta è per te soltanto.

“L’utilità dell’inutile”, Nuccio Ordine

Citazioni, Riflessioni

Perché credere?

“Devo avere qualcosa in cui credere, altrimenti la vita è insignificante!”

  • “Ma se c’è un Dio, allora perché c’è tanto male in questo mondo? A livello di semplificazione, perché c’erano i nazisti?”
  • “E che ne so io perché c’erano i nazisti? Io non so come funziona un apriscatole!”

Citazioni, Musica

Spiegazione del testo de “L’agnello di Dio” di Francesco De Gregori

Nel 1996, dopo 4 anni dall’ultima pubblicazione di inediti, uscì un nuovo album di Francesco De Gregori, intitolato “Prendere e lasciare”. Fu un album abbastanza sfortunato, non tanto per il successo (che comunque fu buono) ma soprattutto perché fu vittima di svariate critiche ed eventi collaterali.

Innanzitutto quest’album segnava un punto di svolta nella musica di De Gregori in quanto, facendo largo uso di strumenti elettrici, si distaccava dagli album precedenti dirigendosi verso sonorità sempre più rock (appositamente per avvicinarsi a questo tipo di suono, fu deciso di incidere l’album negli Stati Uniti). Pochi suoi fan accettarono con facilità questa svolta e, per questo, l’album subì qualche critica (mi ricorda vagamente ciò che accadde a Bob Dylan tanti anni prima, nel 1965, quando a Newport il pubblicò inferocito reagì addirittura con degli insulti quando vennero usate chitarre elettriche per accompagnare canzoni che, invece, furono incise anni prima con delle semplici chitarre non amplificate).

Un altro evento che danneggiò l’album fu la presenza di una canzone intitolata “Prendi questa mano, zingara”. Molti anni prima (nel 1969), Iva Zanicchi e Bobby Solo vinsero il Festival di Sanremo con la canzone “Zingara”, che iniziava proprio con le parole “Prendi questa mano, zingara”. Evidentemente, a De Gregori era piaciuta l’idea della canzone della Zanicchi e decise di riprenderne il soggetto e continuare a farlo vivere in un’altra canzone, dandole una sfumatura diversa: non una cover, ma una canzone malinconica, scura e inquietante, esplicitamente ispirata a quella della Zanicchi. Ad Iva Zanicchi piacque molto la canzone di De Gregori e si disse pure molto lusingata; gli autori della canzone della Zanicchi invece reagirono male e fecero causa a De Gregori per plagio. Nonostante l’intenzione di De Gregori fosse quella di prendere ispirazione da quella canzone e sviluppare l’argomento in maniera diversa, tra l’altro ammettendo pubblicamente la provenienza di quell’idea citando esattamente il primo verso di quella canzone nella sua (“Prendi questa mano, zingara, dimmi pure che futuro avrò”), nel 2002 fu condannato per plagio, costretto a ristampare l’album senza quella canzone, con il divieto assoluto di suonarla in qualsiasi concerto futuro. Insomma, una sentenza – secondo me ingiusta – che voleva cancellare per sempre una canzone a mio avviso stupenda. Fortunatamente, nel 2007, la sentenza fu ribaltata dalla Corte d’appello e De Gregori fu assolto: la sentenza affermò che quella porzione di testo è da considerarsi una citazione e non un plagio.

Infine, un altro aspetto che mise in cattiva luce l’album, fu la presenza di un’ulteriore canzone intitolata “L’agnello di Dio”, che oltretutto fu scelta per la promozione del disco. Alla sua pubblicazione, seguì un articolo dell’Osservatore Romano (il giornale del Vaticano) che mosse svariate critiche nei confronti di alcuni cantautori italiani – tra i quali Venditti, De André, Dalla, Battiato, Ligabue e De Gregori – per l’utilizzo di Dio nei loro testi nonostante gli autori fossero dichiaratamente atei, accusandoli di assecondare solamente strategie di mercato (“nuova moda religiosa pilotata dai padroni del disco”). I Paolini, invece, diedero un giudizio positivo per la canzone di De Gregori, attribuendogli il merito di esprimere “una ricca seppure dolorosa carica di umanità”.

De Gregori ribatté alle critiche osservando che «Gesù patì non in compagnia di sant’uomini, ma di due ladroni che portò con sé in Paradiso. Al posto dei ladroni in questa canzone ci sono puttane, spacciatori, il soldato che decapita il nemico… Non è certamente una canzone pacificatoria. Ma dov’è lo scandalo?».

Le critiche del Vaticano furono risolte in un duro ma sincero faccia-a-faccia tra De Gregori e il cardinale Ersilio Tonini (concluso con un abbraccio tra i due) avvenuto il 21 ottobre 1996 in una trasmissione TV condotta da Red Ronnie, chiamata Roxy Bar (in onda su TMC), e annunciato dai giornali come una sorta di resa dei conti tra la musica dei giovani e la Chiesa.

“Può un ateo usare il nome di Dio senza passare per blasfemo?”, ha chiesto De Gregori a Tonini, mentre il cardinale tentava di spiegare al cantautore che “la voce poetica” e “le mani che scrivono canzoni” sono un dono. Un punto di vista non compreso da chi “non ha fede”, ha osservato De Gregori. E mentre Ronnie e l’autore di Rimmel lo incalzavano, Tonini ha specificato: “Posso ringraziare Dio di avere fatto uno come te”, frase alla quale ha fatto seguito l’abbraccio.

Quasi due anni dopo, ricordando quell’incontro, De Gregori dedicò “L’agnello di Dio” al cardinal Tonini durante un concerto: “Mi disse che l’ aveva trovata carina e a lui voglio dedicarla. Non credo sia presente in teatro ma se lo incontrate, fateglielo sapere”.

Ma veniamo al testo della canzone, partendo dal suo titolo.

Agnello di Dio” è un’espressione evangelica che si riferisce a Gesù Cristo nel suo ruolo di vittima sacrificale per la redenzione dei peccati dell’umanità: è “colui che toglie i peccati del mondo” grazie al suo sacrificio. Durante la Messa, infatti, i Cristiani offrono le sofferenze ed il sacrificio di Gesù (che è appunto l’Agnello di Dio da sacrificare) a Dio Padre, in espiazione dei peccati del mondo.

Dunque, come suggerisce il titolo, questa canzone tratta di un grande sacrificio che appare inevitabile e necessario.

“Ecco l’agnello di Dio
chi toglie peccati del mondo”,

L’incipit della canzone è la stessa formula che si ripete più volte durante la Messa, quasi a sottolineare il fatto che ciò che verrà raccontato nella canzone appartiene ad un vecchio rito che si ripete costantemente e inevitabilmente, sempre uguale a se stesso. In questa frase, però, c’è qualcosa di strano, una inquietante storpiatura: “chi toglie peccati del mondo” anziché “che toglie i peccati del mondo”. Il motivo è presto spiegato…

disse la ragazza slava
venuta allo sprofondo.

… quella prima frase è in realtà pronunciata da una ragazza straniera (che quindi non conosce ancora bene la lingua), immigrata verso un posto orribile, in cui ci si finisce solo perché ci si è sprofondati dentro involontariamente. Ma perché la ragazza slava pronuncia quelle parole? Anche qui, è sufficiente aspettare la frase successiva:

Disse la ragazza africana sul Raccordo Anulare:
“Ecco l’agnello di Dio che viene a pascolare
e scende dall’automobile per contrattare”.

Accanto alla slava, c’è un’altra ragazza sempre straniera, ma stavolta proveniente da un paese diverso, l’Africa. Si trova a lato dell’autostrada che circonda Roma, il Grande Raccordo Anulare. Un’auto ha appena accostato, ed è sceso un uomo che si dirige verso di lei, con l’intento di contrattare il prezzo della prestazione sessuale che va cercando (“viene a pascolare”). La ragazza sostiene che quell’uomo è una vittima tanto quanto lei: sono entrambi vittime di questo mondo perverso, entrambi agnelli di Dio che vengono sacrificati pubblicamente.

Ecco l’agnello di Dio
all’uscita dalla scuola

La scena successiva si apre con un collegamento alla precedente: il soggetto è il medesimo, l’agnello di Dio. Anche nei pressi di una scuola, dunque, si sta per consumare un sacrificio, con delle vittime.

ha gli occhi come due monete,
il sorriso come una tagliola

Ci vengono pure dati alcuni dettagli sull’aspetto fisico dell’agnello che si trova davanti a quella scuola, quasi per rassicurarci, per farci prendere confidenza con lui a tal punto da poterci fidare. Prestando maggiore attenzione, però, si capisce che in realtà non sono semplici tratti somatici, perché ci dicono qualcosa anche del suo carattere.

Gli occhi sono tondi, spalancati, inanimati, che non lasciano trasparire sentimenti, assomigliando a due fredde monete. Questa similitudine suggerisce anche che quegli occhi potrebbero essere avidi di denaro, iniziando a farci sospettare che il loro padrone nasconda qualcosa di sinistro.

Perfino il sorriso stampato sulle sue labbra è talmente rigido che assomiglia ad una tagliola. E anche questa similitudine non è casuale in quanto serve a creare una atmosfera inquietante: il suo sorriso è in realtà una trappola, in cui animali innocenti possono rimanere incastrati se non prestano la necessaria attenzione, se non le stanno alla larga.

Dopo questi brevi tratti fisici, continua la descrizione del soggetto attraverso le sue parole e, subito dopo, attraverso le sue azioni.

ti dice che cosa ti costa,
ti dice che cosa ti piace

Questo soggetto sinistro ci rivolge la parola. Pur senza conoscerci, ci mostra qualcosa che vuole venderci, dichiarandone il prezzo e dicendosi sicuro del fatto che la apprezzeremo.

prima ancora della tua risposta ti dà un segno di pace

Senza lasciarci il tempo di rispondere e tantomeno di riflettere, compie un gesto “di pace” che nelle sue intenzioni dovrebbe appianare le nostre eventuali perplessità e diffidenze. Cercando di non dare nell’occhio, ci stringe la mano esattamente come si fa a Messa quando ci si scambia il “segno della pace”. Ecco che in questo modo, qualcosa passa dalla sua mano alla nostra.

Il tutto avviene sotto gli occhi complici di due poliziotti:

e intanto due poliziotti
fanno finta di non vedere.

E ora tutto diventa chiaro: davanti ad una scuola, uno spacciatore cerca di guadagnarsi qualche nuovo cliente regalando delle bustine di droga. I poliziotti che dovrebbero contrastare quest’azione in realtà non adempiono al loro dovere, forse per rassegnazione o semplicemente per il quieto vivere.

Se dovessimo giudicare gli attori coinvolti nell’episodio appena descritto, probabilmente li classificheremmo tutti quanti come colpevoli, chi più chi meno. Invece, De Gregori spiazza tutti affermando l’esatto contrario: attribuisce l’appellativo di vittima (agnello) allo spacciatore, proprio a colui che apparentemente ha dato inizio alla catena di eventi negativi e su cui quindi ricadono le maggiori responsabilità. Vuole dunque confondere e mescolare le vittime con i carnefici, per sottolineare il fatto che non sempre le cose sono come appaiono. Ogni situazione scaturisce da un insieme di fattori che l’hanno portata a verificarsi; ognuno ha le sue ragioni e spesso il comportamento della gente è dettato sì dal libero arbitrio, ma è comunque soggetto ad eventi esterni che ne vincolano il modo con cui si manifesta. Per questo, spesso, i carnefici sono in realtà – a loro volta – delle vittime.

Oh, aiutami a fare come si può

Il ritornello si distacca – dal punto di vista musicale – dalle strofe: mentre le strofe sono caratterizzate da una musica ritmica, martellante e ripetitiva (adatta a sottolineare un senso di disagio, decadenza, disperata rassegnazione), il ritornello è decisamente più tranquillo e caratterizzato da un’atmosfera mistica, riflessiva.

Per sottolineare il distacco, il ritornello comincia con un’esclamazione: “Oh”. Questa particella apparentemente insignificante è fondamentale nel contesto di questa canzone: ha la funzione di scuotere l’ascoltatore per ridestarlo dal sentimento di inquietudine e disperazione suscitato dagli scenari presentati nelle strofe precedenti al fine di riportarlo, invece, ad un livello di attenzione adeguato a recepire un messaggio diverso, di speranza. Oltretutto, questa esclamazione viene pronunciata esattamente nell’istante in cui cambia la musica, risultando ancora più efficace.

Il ritornello si apre con una preghiera: “aiutami a fare come si può”. Suona quasi come un’ammissione di colpevolezza: il riconoscimento della propria condizione di impotenza davanti agli eventi e il rimettersi nelle mani di qualcun altro (presumibilmente Dio) che possa guidarci. E’ come se venisse detto: “Ammetto di non essere in grado di discernere il bene dal male, di scegliere la via giusta; quindi mi metto nelle tue mani e, per favore, guidami tu, aiutami a costruire il mio futuro, a vivere il mio destino”.

prenditi tutto quello che ho

La preghiera continua con la confessione che si è pronti ad azzerare se stessi per poter affidarsi completamente a colui che diverrà la nostra guida: può svuotarci prendendosi tutto ciò che abbiamo, perché non ne avremo più bisogno dato che saremo in balia della sua volontà.

insegnami le cose che ancora non so, non so

Potremo così ripartire da capo. Avremo bisogno di imparare cose nuove, come ad esempio riconoscere il bene ed evitare il male, cosa che finora non siamo stati in grado di fare.

e dimmi quante maschere avrai
e quante maschere avrò.

Inoltre, vogliamo essere in grado di andare al di là delle apparenze per capire dove si cela la verità, smascherare ogni persona per coglierne la vera essenza. Per far ciò, è indispensabile anche smascherare noi stessi, per comprenderci fino in fondo e raggiungere così la purezza d’animo.

Questa parentesi mistica racchiusa nel ritornello termina qui, riprendendo la solita ritmica e i soliti scenari già vissuti nelle precedenti strofe. Difatti, la strofa successiva inizia con le stesse identiche parole già sentite.

Ecco l’agnello di Dio
vestito da soldato
con le gambe fracassate,
col naso insanguinato.
Si nasconde dentro la terra,

Stavolta, la vittima sacrificale è un soldato in guerra, che si ritrova con le gambe e il naso feriti sebbene abbia trovato un riparo temporaneo sottoterra.

Fin qui sembra che, al contrario delle figure descritte nelle strofe precedenti, il soldato sia davvero una vittima.

tra le mani ha la testa di un uomo,

Ma, come prima, scopriamo che la vittima è in realtà anche un carnefice: il soldato tiene in mano la testa di qualcun altro, probabilmente un nemico che ha appena ucciso.

ecco l’agnello di Dio
venuto a chiedere perdono.

Ecco dunque la persona che viene sacrificata in questo episodio: il soldato. Sembra però che esso sia cosciente della propria condizione: è un peccatore che si costituisce, chiede perdono per quello che ha fatto.

Si ferma ad annusare il vento
ma nel vento sente odore di piombo.

Nell’aria che il soldato sta respirando c’è ancora l’odore dei proiettili che l’hanno violata e che, probabilmente, stanno continuando a passare. Il soldato sembra dunque chiedere perdono anche per ciò che di male stanno facendo coloro che gli sono accanto. Sembra quasi che sia l’unico a rendersi conto di quello che stanno combinando, ed è l’unico che si dice pronto a sacrificarsi affinché vengano perdonati i peccati di tutti quanti.

Percosso e benedetto

Anche se all’inizio della strofa successiva non viene ripetuta la formula “Ecco l’agnello di Dio”, si capisce che è sottintesa. Qui, vengono evidenziate due opposte condizioni in cui si può trovare l’agnello: maltrattato (percosso) o osannato (benedetto). E’ come se, anche qui, si volessero evidenziare gli opposti, le contraddizioni, confondere le vittime e i carnefici, il bene e il male.

ai piedi di una montagna,
chiuso dentro una prigione,
braccato per la campagna,
nascosto dentro a un treno,
legato sopra un altare…

Questo repentino elenco di situazioni e luoghi vuol suggerire il fatto che la vittima si può trovare ovunque, è sufficiente guardarsi intorno.

ecco l’agnello di Dio
che nessuno lo può salvare,

In tutte le situazioni elencate, ma anche in tutte le altre che potrebbero essere tranquillamente aggiunte all’elenco, emerge una condizione di impotenza della vittima. Non è rassegnazione, ma un dato di fatto: per quanto ci si possa indignare o adoperare, l’agnello sarà sempre lì e noi saremo sempre impossibilitati ad evitare il suo sacrificio. Il male ci sarà sempre, nel mondo, perché, per quanto ci si sforzi, un mondo in cui esiste solamente il bene è una mera utopia.

perduto nel deserto
che nessuno lo può trovare.

E anche se l’abbiamo perduto, non lo troviamo o non lo vediamo, lui c’è; è inevitabile.

Ecco l’agnello di Dio
senza un posto dove andare.
Ecco l’agnello di Dio
senza niente da mangiare.
Ecco l’agnello di Dio
senza un posto dove stare.

Qui ci viene presentata l’inadeguatezza della vittima a stare in mezzo agli altri. Nessuno se ne cura (avrebbe bisogno di cibo), e lei non sa cosa fare, non sa dove andare. Sono tutti troppo impegnati nei propri affari, e non solo non si prendono cura di lei ma non se ne accorgono nemmeno.

La canzone si conclude ripetendo il ritornello, con qualche piccolo nuovo innesto che corrobora ulteriormente il suo significato già descritto in precedenza.

Oh, aiutami a stare dove si può
e prenditi tutto quello che ho
insegnami le cose che ancora non so, non so
e dimmi quante maschere avrai
regalami i trucchi che fai
insegnami ad andare dovunque sarai
sarò
e dimmi quante maschere avrò
se mi riconoscerai
dovunque sarò
sarai.

Concludendo, uno degli obiettivi della canzone è quello di mostrare che spesso le cose non sono come appaiono. Dove c’è degradazione, violenza, emarginazione, peccato, miseria, spesso si nasconde una verità più profonda, un’umanità fragile e inaspettata. Dunque, la canzone porta con sé l’augurio di riuscire a riconoscere questi sentimenti anche dove meno ce li si aspettano, abituandosi a guardare al di là delle maschere (che generalmente abbruttiscono una situazione).

Il video ufficiale della canzone è stato girato sul set di un film di Gabriele Salvatores e evoca efficacemente un’atmosfera di inquietudine e desolazione. A riguardo, lo stesso De Gregori afferma:

In questo scenario di archeologia industriale del Portello (un’area dismessa dall’Alfa Romeo), e in altre riprese come quella nel letto del fiume Tagliamento in secca, un set costituito da una nuda pietraia nella quale io mi aggiro, “L’agnello di Dio” viene proiettato in un futuro di desolazione, di solitudine, di alienazione, di pazzia.
Nel video fa una apparizione hitchockiana lo stesso Salvatores.

Purtroppo, attualmente, su YouTube non è presente il video ufficiale (credo per questioni di copyright). Eccone comunque un altro:

Ecco l’elenco delle altre canzoni analizzate in questo blog:

Personale, Riflessioni

Dentro o fuori dalla caverna?

Qualche giorno fa ho letto un pensiero su cui spesso mi sono trovato a riflettere.

Il danno più grande che possiamo fare a noi stessi è ingannarci, raccontarci una realtà artefatta che ci faccia stare bene, ci tolga l’ansia, ci rassicuri. […] Magari così troviamo un po’ di pace per qualche ora o anche per un tempo più lungo. Oppure riusciamo a vivere in modo “decente”.
Ma è questo il nostro destino? Vivere una vita finta o mutilata?

Il tutto potrebbe essere riassunto dal dilemma: è meglio “sapere” per poi vivere una vita infelice ma vera (consapevole), oppure non “sapere” – o, peggio ancora, “ignorare” – continuando a vivere una vita felice ma falsa, in quanto basata su convinzioni sbagliate?

Guardandomi attorno e analizzando le mie passate esperienze, sono arrivato a convincermi del fatto che la gente (forse non tutta, in quanto temo sia una caratteristica soprattutto italiana) spesso preferisca rimanere nella situazione in cui si trova, minimizzando i problemi e cercando delle giustificazioni. Quante volte notiamo qualche piccola imperfezione che insinua un dubbio in noi, ma che preferiamo ricacciare indietro, piuttosto di indagarne il motivo? Quante volte tendiamo a lamentarci dei problemi senza mai porre in atto delle azioni concrete per contrastarli?

Temo che il motivo principale di questo atteggiamento sia la pigrizia. Ed è molto triste sapere che non si cerca di risolvere un problema, anche se è risolvibile, perché manca la voglia, l’impegno.

Indubbiamente richiede meno sforzo l’accettare una situazione così com’è, rispetto al fare qualcosa per porvi rimedio. Forse dietro al “dover fare qualcosa” c’è la paura di ciò che accadrà dopo averlo fatto, la paura dell’ignoto, di ciò che non si conosce. Probabilmente noi uomini (italiani?) siamo pessimisti di natura (forse anche a causa delle difficoltà che la società ci costringe ad affrontare), e per questo siamo portati a pensare che se dovesse cambiare qualcosa, sicuramente porterebbe ad una situazione peggiore.

La conseguenza di un tale modo di pensare è che per poter avviare un processo di cambiamento è necessario avere un motivo più che valido, che ci assicuri il raggiungimento di una posizione migliore di quella attuale. Alle persone “fortunate” capita di incontrare questo motivo che le spinge a decidere di cambiare, ma la maggior parte delle persone non lo incontrerà mai o, anche se lo incontra, la paura del cambiamento le fa decidere che sia meglio rinunciare a quell’opportunità e lasciare le cose come stanno… Questo secondo tipo di persone è quello che accetta di vivere una vita “di serie B”, una vita che è piovuta loro addosso: hanno giocato un ruolo passivo, subendo le decisioni altrui, fino a rinunciare deliberatamente alla verità, nascondendo ogni dubbio per potersi così ritenere felici. I pochi altri, invece, hanno preso in mano la situazione e deciso di vivere da protagonisti, nel bene o nel male;  artefici del proprio destino; non hanno avuto paura di accettare la verità, rincorrendola con determinazione, pur consapevoli del rischio di rimanere delusi o infelici.

In passato, tanti si sono occupati di questo argomento (che è estremamente generico e potrebbe essere applicato a tutto, dalla fede religiosa ai rapporti sentimentali, e così via…), tra i quali anche il filosofo Platone col bellissimo ed efficacissimo mito della caverna.

Io sono sempre stato dalla parte della verità “a tutti i costi”, perché ritengo che la sincerità e la conoscenza siano le cose più importanti da perseguire. Però non sono mai riuscito ad accettare fino in fondo l’infelicità che queste due cose spesso si portano appresso.

Per la prima volta da quando curo questo blog, invito voi lettori a lasciare un vostro parere in merito, in quanto non sono ancora riuscito a convincermi su cosa sia meglio e mi piacerebbe dunque sapere cosa ne pensate. Preferite rimanere chiusi nella caverna, nel mondo artificioso che avete imparato ad apprezzare, o ritenete valga la pena uscire fuori per scoprire com’è fatto il mondo vero, essendo disposti ad accettare anche una realtà che potrebbe non piacervi o piacervi meno della caverna?

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Dimostrazione logica della non-esistenza di Dio

Ora, è così bizzarramente improbabile che una cosa straordinariamente utile come il pesce Babele si sia evoluta per puro caso, che alcuni pensatori sono arrivati a vedere in ciò la prova finale e lampante della non-esistenza di Dio. Le loro argomentazioni seguono pressappoco questo schema:

“Mi rifiuto di dimostrare che esisto” dice Dio “perché la dimostrazione è una negazione della fede, e senza fede io non sono niente”.

“Ma” dice l’uomo “il pesce Babele è una chiara dimostrazione involontaria della Tua esistenza, no? Non avrebbe mai potuto evolversi per puro caso. Esso dimostra che Tu esisti, e dunque, grazie a questa dimostrazione, Tu, per via di quanto Tu stesso asserisci a proposito delle dimostrazioni, non esisti.
Q.E.D. Quod Erat Demonstrandum”.

“Povero me!” dice Dio. “Non ci avevo pensato!” e sparisce immediatamente in una nuvoletta di logica.

“Oh, com’è stato facile!” dice l’Uomo, e, per fare il bis, passa a dimostrare che il nero è bianco, per poi finire ucciso sul primo attraversamento pedonale che successivamente incontra.

“Guida galattica per gli autostoppisti”, Adam Douglas

Citazioni, Personale, Riflessioni

La fortuna di vivere

L’uomo è da sempre alla ricerca di un significato da dare alla propria vita. E’ molto diffusa la credenza che, senza di esso, non valga la pena vivere. E così alcuni trovano un significato in Dio, altri in una spiegazione scientifica basata sulla relazione causa-effetto. In pochi, invece, credono che effettivamente non ci sia un significato o un progetto a guidare le nostre vite: tutto avviene per caso.

Se si pensa a tutti gli episodi, i gesti, gli incontri che una persona si trova a fare ogni giorno e alle conseguenze che essi provocano, si capisce immediatamente che non siamo padroni della nostra vita. E’ spaventoso il fatto di non essere in grado di guidare le nostre vite, di far andare le cose come vogliamo noi.

Io però sono convinto che ciò non sia un problema: se riuscissimo ad accettare la nostra condizione di impotenza, vivremmo bene ugualmente. Anzi, forse vivremmo meglio.

Perché mai dovremmo ostinarci a trovare un senso? E se non esistesse, il senso? Invece, ha senso perdere tempo a cercare un significato che quasi sicuramente non raggiungeremo mai? Non è forse meglio accettare la propria condizione e concentrarsi su di essa, per cercare di stare bene con ciò che si ha?

Il punto è che la vita è talmente breve e talmente incasinata che se ci fermiamo a cercare di capire ogni dettaglio e riordinarne i pezzi, rischiamo di arrivare ad un certo punto in cui ci rendiamo conto di essere riusciti a sistemare solamente una minima parte delle cose, ma di aver impiegato una porzione non indifferente della nostra vita per farlo! E allora avrebbe senso chiedersi se i risultati ottenuti giustificano lo sforzo che è stato fatto. Siccome temo che la risposta sia sempre negativa, mi chiedo: non vale la pena vivere semplicemente il presente, senza pensare né la passato, né al futuro? Senza lamentarsi di ciò che ci capita, delle occasioni perse o delle strade sbagliate che abbiamo percorso… Senza avere chissà quali desideri e mete da raggiungere…

Dobbiamo accettare la vita così come viene.

Comica o tragica, la cosa più importante è godersi la vita finché si può perché ci tocca soltanto un giro e, quando l’hai fatto, l’hai fatto.
(“Melinda e Melinda“, Woody Allen)